Strade gelate.
Italia multietnica
Scritto da Emanuele Pagliero   

Strade gelate

Le gelide mattine dell’inverno torinese ci permettono di vedere il luogo in cui viviamo semideserto, rivelandone una faccia inedita che tutto l’anno, col suo incedere frenetico, tiene celata.

Sono le quattro ed è buio: ecco che la città sprofonda nella nebbia, quasi come le nuvole si adagiassero al suolo, in cerca di riposo dopo estenuanti ore di volo nel cielo diurno.

Fuori dal portone il freddo è artico e mi compiaccio di aver preso le dovute precauzioni imbottendomi di vestiti, doppi calzini compresi.

Prima di raggiungere il punto di ritrovo, precisamente a metà strada, la colazione. Il bar profuma di brioches appena sfornate, il caffé è amaro. Un uomo sulla quarantina, canuto col viso arrossato dal troppo alcool si congratula con me per la mia volontà di mettermi a lavoro. Bastasse quella: nel nostro paese, quest’anno, il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il massimo storico, registrando un altissimo trentasei per cento (dato riferito a marzo 2012).

Ancora pochi passi sull’asfalto, maculato dalle innumerevoli pozzanghere ghiacciate e sono arrivato a destinazione.

Ecco il punto indicatomi il giorno prima da una cooperativa, alla ricerca di personale per spalare la neve che abbondanda in tutta Torino. Si tratta di un edificio rettangolare piuttosto spoglio,adiacente al cavalcavia di corso Bramante, che ne sfiora l’estremità. Sulla facciata anteriore torreggia la scritta AMIAT, con lettere cubitali, verdognole.

Ad aspettarmi c’è una folla di giubottoni che circonda il coordinatore dei lavori,un signore arabo dalla voce rude che ci chiama ad uno ad uno sistemandoci in gruppi. è stupefacente notare come la maggior parte di noi siano Rumeni o Arabi. Si vede che in tempi di crisi molti italiani si lamentano ma storcono il naso a fare i cosidetti lavori umili.


 

Vengo assegnato assieme ad altri tre ragazzi in piazza Bengasi. Ancora intontiti dal sonno, carichiamo pale e raschietti in macchina e partiamo.

Il tragitto è breve a differenza del lavoro che ci attende alla meta:un intera piazza da ripulire; ghiaccio e cumuli di neve appesantiscono le nostre braccia e pure le nostre pale si piegano,usurate e stanche dal troppo utilizzo.

Attorno a noi la città si desta lentamente, i primi passanti ci sorridono, a volte sinceramente, a volte con sguardi pieni di commiserazione. “Che lavoraccio!!” constata una signora passandomi accanto. Eppure io non mi lamento: particolarmente attratto dai lavori che non precludono l’opportunità di divagazioni nel pensiero, stare all’aperto e fare del moto fisico mi rende a mio agio. Alto e basso non esistono: forse inchiodato a una poltrona in ufficio starei decisamente peggio.

Passano i minuti, e dopo i minuti le ore, finché il trillo isterico di un cellulare ci interrompe. è la base: vuole che ci spostiamo, c’è un parco da ripulire.

Due colpi di pala bastano a convincerci di quanto i nostri mezzi siano inutili contro lo spessore delle lastre che ricoprono i sentieri, simili a torrenti ghiacciati.

Il nostro collega Algerino si allontana, in cerca di una soluzione.Al suo ritorno sfoggia un martello preso in prestito: “con le buone maniere si ottiene tutto!!” esulta.

Senza altri inconvenienti, la giornata è passata abbastanza velocemente, tanto da non lasciarmi molti altri ricordi.

Verso le due del pomeriggio, a passi stanchi, abbiamo fatto ritorno in piazza Bengasi, ormai interamente agibile.

Accatastando grossolanamente le cassette di frutta vuote e i giornali, i lavoratori stanno accendendo un falò.

La carta annerisce velocemente per effetto della combustione sicché la fiamma raggiunge l’intensità necessaria ed io posso togliermi i guanti accarezzandone l’ardore.

In quel preciso istante ho sentito che quella cosa chiamata società non esisteva, che qualcosa di più primordiale, di più semplice andava creandosi tra noi; eravamo solamente corpi in cerca di un riparo dal freddo, palmi riflettenti lo scoppìo del bracere, uomini  donne e bambini che ripetevano una scena rimasta immutata attraverso gli eoni.

Qualcosa in me è cambiato da quel giorno; più precisamente, il sentimento di appartenenza al genere umano, divenuto molto più concreto che in precedenza.

Tanti freddi ho sentito da quel momento in poi, certuni fisici, altri molto più radicati nella coscienza, tuttavia dentro di me posso evocare a riscaldarmi, quasi a ricordo di quella giornata, una piccola fiammella. Si tratta proprio di quel sentimento.