Ti ho visto pregare

di Vanessa Marenco

 

Ti ho visto pregare, ad occhi chiusi, con un rosario perlato stretto in mano, con la kippah in testa, seduto, inginocchiato, stanco, ma forte nella tua fede, certo che Qualcuno sarebbe stato accanto a te, durante il viaggio che stavi per intraprendere. L’avresti toccato, quel Cielo, di lì a pochi istanti. Ti ho pure invidiato, sai, perché tu riuscivi a Sentire. Ti ho visto camminare, avanti ed indietro, reggendo con cura una Bibbia in una mano, e un IPhone nell’altra, l’allora ed il futuro.

Ti ho vista correre, spingendo tutti, in alto il passaporto, sperando quasi che si trasformasse in un’elica e che ti facesse saltare quelle code, i controlli di sicurezza, e facesse sparire per magia tutte quelle persone goffe che stavano tra te e quel gate, che starà già inesorabilmente chiudendo. Ti ho seguita fino al gate. Pensavi: “Ce l’ho fatta”, vero? E invece, no, ti dicevano “Non ce l’hai fatta. Il tuo volo è partito, sparito, saltato, cancellato, spostato”. Ti ho vista chiederti: “Dovevo correre di più? Di meno? Dovevo partire prima? Arrivare dopo? Cosa potevo fare, meglio, per non perdere quel volo?”.

Vi ho osservati mangiare caviale, panini di plastica, insalate rigide, sushi su rotaie enormi, ostriche fresche e biscotti rotti. Tutti con le stesse impressioni nello sguardo: “Questa roba sa di plastica”, “Ma in che aeroporto sono?”, e ancora “Questa volta, indietro, non torno”. I più felici, mi siete sembrati voi, che gli hamburger in polietilene non li avete sfiorati. Vi eravate, infatti, portati dietro una scodella di frutta, una fetta di torta salata, una frazione di cuore, di famiglia, di casa. 

Ti ho vista rimanerci di sasso quando, ad un controllo di sicurezza qualunque ti hanno chiesto se potevano gentilmente controllare ciò che portavi nello zaino perché, tu, sì, proprio tu, secondo loro, trasportavi cocaina. Ne hanno pure preso un sample, come si dice in gergo, l’hanno infilato nel macchinario, tu che cercavi di spiegargli che non era cocaina, ma una semplice fetta di torta di riso. Quando ci sono rimasti male quando hanno realizzato che tu, proprio tu, non trasportavi cocaina. Ti ho guardata correre al gate, dopo quell’intoppo, pensando “Crepate”.

Vi siete tolti milioni di sandali, ciabatte, infradito, stivali, scarponi, Laboutin, Jimmy Choo, scarpe rotte, buone, colorate, troppo grosse o troppo piccole, ricolme di polveri di deserti lontani, e di pulviscoli di uffici rovinati. Ve le siete tolte quasi tutti, davanti a quel benedetto metal detector, quasi a dire: “Ecco, guarda dove ci ha portati la strada. Scannerizza il mio ieri, perché il futuro è già là che mi aspetta sulla pista di decollo”. C’è chi poi, i piedi, in un aeroporto, li ha infilati in una boccia di vetro zeppa di pesciolini che andavano di qua e di là mangiandovi le cuticole.

Ti ho ascoltata raccontare, gridare, ridere, discutere in tutte le tue meravigliose lingue. Alcune vicine, conosciute. Altre misteriose. Alcune con eserciti e marine dietro di loro, altre cariche di brezze marine, e fiordi, ed erba fresca, e pavimenti verticali che grattano il cielo. Hai provato a farti capire, alla frontiera, dicendo “Io non capisco, spiegami dove devo andare”. E proprio in un aeroporto ho testimoniato quel miracolo che è dato dall’esistenza di una lingua universale: “Vieni, ti faccio vedere io dove si ritirano i bagagli, dove sono i bagni. Vieni, ti aiuto io”.

Ti ho esaminato mentre i tuoi occhi zigzagavano su migliaia di schermi, in cerca del target di fine mese, dell’indirizzo email, della fetta di mercato ancora da conquistare. Ho visto il mondo reale, dove le persone si sfiorano, sparire per te. Avrei voluto dirti, senza pretese messianiche: “Spegni quel computer. Scrivi una cartolina vera, di carta a qualcuno. Guarda quante strade si incrociano di fronte a te, a noi, in questo terminal”. Hai scritto milioni di email, di report, di contratti di lavoro, di autorizzazioni, di richieste di autorizzazioni, di richiami, di reclami, mentre davanti a te decollavano 1, 100, 1000 voli.

Ero lì vicina a te, mentre, con aria sospesa cercavi la tua valigia. “Arriverà? Stavolta vedrai che non arriva. Ma no! Eccola! Ah, no, non è la mia. Devo decidermi a mettere un segno di riconoscimento sul mio bagaglio, che ne so, una targhetta con su scritto Sally secondo me funziona”. Come te, anche io, li avrei presi tutti a sberle quelli che ti hanno riempita di spintoni perché, la loro, di valigia eccome se era arrivata.

Vi siete persi per qualche ora in duty free che a Dubai come a Monaco di Baviera sono identici. Avete comprato creme, soldini di cioccolato, liquirizie, amarene sotto spirito, profumi, sperando soltanto che al gate nessuno vi facesse notare che, forse, 6 borse piene di quella roba non erano un’ottima idea. Vi ho guardate mentre una qualsiasi venditrice vi faceva provare l’ultimo mascara o ombretto: vi ho viste sorridere, piacendovi di nuovo, scoprendovi affascinanti e giovani, per un attimo almeno.

E poi ti ho incontrata alle partenze. Tutta la vita davanti, no? Cosa inseguivi? Dove andavi? L’importante è andare, staccare i piedi da questa terra pesante e lieve allo stesso tempo. Hai trovato qualcuno ad attenderti, dall’altra parte? Un’esperienza nuova, uno stipendio fisso ad esempio, un amore, una casa fino alla fine del mondo, una possibilità di vivere di nuovo e di nuovo. Hai pianto alle partenze? Chi hai lasciato lì, a fare “ciao ciao” con le mani, e un fazzoletto sporco? Ti sei sentita più libera, più morbida, più grande. Li hai abbandonati per sempre, quei cuori, o ne hai stravolto l’importanza, tornando di tanto in tanto? Mi sembra che Thomas Mann dicesse che “chi è felice non si muove” – io rispondo che solo chi è morto non si muove. Una vita senza partenze, vere o metaforiche, è una perdita di tempo sciagurata.

Questo brano è dedicato ad alcuni miei ricordi in giro per aeroporti. Ci sono capitata per passione, lavoro, tragedie, fantasia, noia, e molto altro. Ho pianto, riso, urlato, negli aeroporti, e una volta addirittura, ci sono rimasta chiusa per quasi 3 giorni, con Madama Zenith, ma questa è un’altra storia. Ho perso aerei, valigie, documenti, soldi, tempo, voglia di vivere, voglia di parlare, tutto, dentro gli aeroporti. Ciononostante, amo questi non-luoghi perché sono la rappresentazione estrema della vita dove è sempre troppo presto o troppo tardi o troppo, dove le persone si incrociano, e non sanno la fortuna che hanno a sfiorarsi, dove perdiamo tutto ma ricominciamo anche da zero, dove ridiamo, dove non ci capiamo, ma poi sì che ci capiamo. Negli aeroporti come nella vita ci chiediamo perché, come, dove abbiamo sbagliato, cosa avremmo potuto fare meglio, anche se poi le nostre vite sono determinate dalle opportunità, anche da quelle che ci lasciamo sfuggire.

It’s a small world. It keeps re-crossing itself – Cloud Atlas