Quando le parole feriscono davvero: Uno spunto sulla terza via della psichiatria |
di Samael Coral Nella mia esperienza di volontario presso le associazioni di reintegro degli utenti dei centri di salute mentale, mi è capitato ultimamente, sfogliando “distrattamente” le pagine di un mensile rivolto agli educatori sociali, di leggere un’importante intervista fatta al prof. Eugenio Borgna. Borgna, primario emerito di psichiatria dell’Università di Novara, è un nome che probabilmente non dirà un bel niente anche alla maggior parte degli utenti, ma è comunque una figura nel panorama della psichiatria italiana di notevole importanza (come si evince dalla mole dei suoi scritti, ad esempio). Quello che ci interessa, comunque, non è tanto il suo status accademico, ma proprio il contenuto della stessa intervista. Voglio partire da un presupposto fondamentale che è necessario per inquadrare il discorso: si possono formulare protocolli di diagnosi oggettivamente validi per ogni ramo della medicina, ma NON in psichiatria, dove i criteri di valutazione e la terapia sono SEMPRE soggettivi, e variano da persona a persona. Questo è bene tenerlo a mente da subito e spiega in un certo senso perché ci sia ancora una certa ritrosia a ritenere un paziente psichiatrico come un malato bisognoso di cure e attenzioni come tutti gli altri. Fa bene infatti lo psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli a sottolineare la concezione ancora troppo organicista che c’è della malattia in Italia, per cui una frattura, ad esempio, viene ritenuta più seria di una depressione cronica(!), solo perché “fa male”. Partendo da questo presupposto, Borgna inquadra due rivoluzioni nella storia della psichiatria; la prima, ormai vecchia di un secolo, prende gli spunti da una mutata prospettiva dovuta all’incontro con il pensiero filosofico, per cui non è più l’organo cervello il centro dell’indagine, ma la soggettività dell’individuo, con tutto il suo gravoso carico di problemi e sofferenza interiore. Questa concezione non prendeva però sfortunatamente piede, soppiantata in fretta e furia da una visione troppo somatologica (come ho scritto prima) del problema, che trovava il suo punto di forza nella reclusione forzata nei manicomi. La malattia mentale, in definitiva, veniva vista come assolutamente inguaribile e ingestibile al di là delle strutture-carcere. Per fortuna, dopo un po’ di tempo, si profila la figura insostituibile di Franco Basaglia, fautore della chiusura degli odiosi manicomi, e della riscoperta della soggettività del paziente come persona da curare e non come malattia, e il riconoscimento, fondamentale, che la follia, con tutte le sue accezioni, fa comunque parte della vita di tutti! Se non sussiste empatia tra medico e paziente, difatti, la psichiatria non ha senso di esistere, non potendo essere relegata, come accade purtroppo sovente, alla mera somministrazione di farmaci, che alla lunga, inibiscono la volontà della persona. La battaglia di Basaglia, per quanto incredibile nella sua portata, trovò però terreno fertile nel rinnovato interesse del mondo politico verso queste posizioni; di fatto senza un minimo appoggio ministeriale, è impossibile operare qualsiasi cambiamento. Ed è proprio questo che lamenta Borgna: il disinteresse pressoché totale del modo politico e della società ha fatto sì che la riforma basagliana sia riuscita a metà. Inutile quindi parlare di modifiche alla legge 180 (sulla chiusura dei manicomi), quando essa stessa non è messa in grado di funzionare adeguatamente. Si continua a praticare una psichiatria troppo farmacologica, troppo svincolata dallo studio dell’interiorità del paziente, e il fine principale di molto specialisti sembra quello di sedare a colpi di farmaci la malattia con i farmaci, indispensabili ma mai risolutivi. Tuttora si usano ancora pratiche come la contenzione meccanica e l’elettroshock (io stesso ho conosciuto persone che vi sono andate soggette), poiché si pensa comunemente che non si possa fare niente altro! Purtroppo è inutile girarci intorno: ancora si considera la persona colpita da disagio mentale come diversa, una malattia, come sottolinea Borgna, di cui non ci si può che vergognare. Si rende necessaria allora un’altra rivoluzione, la terza di cui Borgna si fa alfiere, che deve riscoprire la realtà del male a partire da un’arma che molti credono innocua, ma in realtà potentissima: le parole, o meglio, il loro giusto uso. Niente come il “saper parlare” è così efficace come in psichiatria; è difatti certo che non serve a nulla imbottire di pillole o gocce un paziente se non si sa anche “ascoltarlo”. A una persona depressa, ad esempio, è inutile quando non dannoso, parlare del futuro, quando essa vive giocoforza nel ricordo del passato e nel terrore del futuro. Certo, non è affatto facile trovare i giusti termini, anche perché quando stiamo bene, in armonia con noi stessi, molte parole non fanno nessun effetto rispetto a quando siamo tristi e angosciati. E quando soffriamo, come possiamo tollerare a cuor leggero parole come: matto, demente, o anche il più neutrale utente dei servizi psichiatrici, senza sprofondare ulteriormente nella disperazione? Non esistono metodi o ricette speciali per imparare le parole giuste, e sovente non è assolutamente vero che uno specialista sappia usarle meglio di una persona comune dotata di una certa sensibilità, poiché è proprio nella nostra empatia che dobbiamo scovarle (Borgna asserisce che è più utile un libro di Madre Teresa, che certi tomi di medicina, in tal senso). Ed è perciò DOVERE, non solo dei medici, ma di TUTTI NOI, saper riavvicinarci a questo mondo, senza cadere nella facile trappola degli stereotipi, proprio perché il cambiamento non può che partire da una svolta di pensiero di tutta la società vista la solenne portata sociale del fenomeno. Le parole non sono mai insignificanti, e hanno un certo peso per chi le dice, come per chi le riceve. Non sapendo a volte cosa dire, però, lasciamo parlare i gesti: a un potenziale suicida, una stretta di mano o un abbraccio farebbe di sicuro un gran bene, come argomenta Borgna alla fine. Asciughiamo allora una volta di più delle lacrime con una carezza, come diceva papa Giovanni: non potremmo che fare del bene!
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