Pippo si reca dal suo ortopedico di fiducia per
poter curare quella lieve tensione alla spalla
destra che gli procura un dolore intenso.
L’ortopedico gli conferma non esserci nulla di grave,
deve solo fare un po’ di ginnastica riabilitativa
e gli consiglia di fare una visita fisiatrica per
poterlsela
far passare dalla mutua.
Quindi, con l’impegnativa del suo medico di
base, va a prenotare la visita. Ci sarebbe posto
il mese prossimo oppure, a pagamento, si sarebbe
liberato un posto più tardi, nel pomeriggio. Il
nostro eroe non si lascia scappare di certo questa
possibilità, ma dopo aver fatto la visita, il fisiatra
gli intima che deve fare un’ecografia alla spalla e
poi una radiografia generale alla schiena. Il Paziente
(e dico Paziente, nel vero senso della parola)
non si perde d’animo e si mette subito in coda
per prenotare gli esami richiesti. Fino al
prossimo mese non vi è più posto.
Altro caso.
Pluto, la cui madre presenta un’invalidità
civile a causa di un tumore che da
anni sta curando, telefona al Comune
della città dove vivono per poter fare il
contrassegno dei disabili per i parcheggi
riservati e i mezzi pubblici. Al Comune
gli rispondono che deve rivolgersi nel
Comune di residenza della madre.
Pluto telefona al Comune e li gli dicono
che deve recarsi dai vigili urbani e
lui, dal momento che il Comune di residenza
della madre è a pochi chilometri,
vi si reca la mattina successiva, munito
di tutti i certificati di invalidità civile.
Solo che il certificato che serve per questo
documento non è riportato in quei
papiri che Pluto ha in mano. La madre
di Pluto deve recarsi alle ASL di zona per fare la
visita dalla quale otterrebbe il certificato medico
della sua disabilità. Il giorno successivo Pluto
telefona
all’ASL di zona per prenotare la visita e
riesce ad ottenere un posto per il mese successivo.
A mio parere la Sanità dovrebbe essere pubblica
e accessibile a tutti.
Quando ci si reca agli sportelli per prenotare
visite mediche ed esami, ci si ferma all’ingresso
per prendere il numero. Questa prassi che da
un lato ha avvantaggiato tutti, pazienti, medici
e segretarie, evitando l’affollamento che spesso
diventava motivo di nervosismi e liti, dall’altro
lato ha fatto sì che ogni individuo che entra
nel centro medico perde la sua individualità e
diventa un numero.
Non c’è posto questa settimana! Le ripeto, non
c’è posto! C’è un posto libero fra venti giorni.
Singnore,
non si ostini!
E così di questo passo succede che il paziente,
stufo di essere paziente, si arrangia diversamente.
Infatti in questi ultimi vent’anni è
venuto di moda il fai da te.
Molti sono i corsi di shiatzu, reiki, massaggio
ayourvedico, corsi di benessere fisico e chi
più ne ha più ne metta. Basta sbizzarrire la propria
fantasia.
Per non parlare dei pacchetti preconfezionati
di pillole tranquillanti o serenizzanti che
al soggetto cosiddetto sofferente lo specialista
propone in modo del tutto diplomatico: “Lei
provi. E poi, se non va, sa, le medicine si mettono
e si tolgono”.
Siccome nessuna persona normodotata
vuole soffrire, il senso di benessere che quelle
pillole gli procurano, fanno sì che il soggetto
sopraindicato si lasci trasportare e così con la
stessa ricetta redattagli dallo specialista si reca
una volta al mese circa dal suo medico di base
e...Stop! Quello è schedato. Difatti i benefici
arrivano immediatamente. E per un annetto o
due non ci sono problemi. Ma passato un certo
tempo, quando l’organismo di quella persona
si è ormai assuefatto al farmaco, ecco che
ritornano gli stessi antichi sintomi. Essi non
erano stati risolti, bensì erano rimasti solamente
addormentati, anestetizzati.
A questo punto il soggetto può scegliere tre
strade:
– rincarare la dose; questo potrebbe portare
lo pseudo-malato ad uno stato di apatia totale,
dove non è più lui a muoversi e a decidere della
sua vita, ma gli altri intorno a lui decidono
quel che lui stesso è o non è;
– rischiare e non prendere più nessun farmaco
di questo tipo permettendo così ai sintomi
fare il loro corso. Questo metodo è tortuoso
ed i risultati non sono certi;
– la terza via è quella di affidarsi ad un omeopata
o naturopata, ma in questo campo non
mi voglio pronunciare; penso però che bisogna
andarci molto cauti perché è facile incontrare,
più che dei medici, dei “mediconi” o, più semplicemente,
dei ciarlatani.
Io sono per la quarta strada.
Quella di rivedere e ristrutturare tutta
l’organizzazione
sanitaria. Innanzitutto, quelle famose
ASL che un tempo si chiamavano USL.
Ecco, inizierei proprio da qui:
USL vuol dire Unità Sanitaria Locale. ASL
vuol dire Azienda Sanitaria Locale. Ecco dove
casca l’occhio di chi è attento alle fregature
dello Stato. Perché la Sanità dovrebbe essere
un’azienda? Se la sanità è pubblica mentre una
qualsiasi azienda è privata, cosa c’entra l’azienda
con la sanità?
E così come anche l’acqua, quella
stessa che Francesco d’Assisi chiama
“sora acqua”, ultimamente si sta discutendo
di privatizzare. E fra un po’
privatizzeranno anche l’aria che respiriamo.
Se l’Italia è una repubblica, cioè dal
latino res pubblica = cosa pubblica, è
un reato grave impadronirsi di ciò che
è pubblico. Gli scioperanti che occupano
una scuola o un ospedale corrono
dei grossi rischi a farlo. Così come
chi scriveMio padre era uno “specialista
dell’autoriduzione”. Autoridusse il suo stipendio
nell’anteguerra a meno della metà. Non ritirò, quando fu
reintegrato all’IRI, due anni e mezzo di stipendio; al
presidente Paratore rispose: ‘Dall’ottobre 1943 al
febbraio 1946 non ho lavorato!’. Fissò il suo stipendio
nel dopoguerra a meno della metà di quanto gli veniva
proposto; lo mantenne sempre basso. Se il decoro del
grado si misura dallo stipendio, agì in modo
spudoratamente indecoroso! Il 23 gennaio 1966, al
compimento del settantesimo anno, chiese ed ottenne che
gli riducessero il trattamento di quiescenza,
praticamente alla metà, giustificandosi così: ‘Ho
verificato che da pensionato mi servono molti meno
danari!’. Ai figli ha lasciato un opuscolo dal titolo:
‘Come è che non sono diventato ricco’, documentandoci,
con atti e lettere, queste ed altre rinunce a posti,
prebende e cariche. Voleva giustificarsi con noi:
‘Vedete i denari non me li sono spesi con le donne; non
ci sono, e perciò non li trovate, perché non li ho mai
presi!’ Mia madre (gli voleva molto bene) ha sempre
accettato, sia pure con rassegnazione, tali sue
peregrine iniziative (anche quando dovemmo venderci la
casa e consumare l’eredità di lei); però ogni tanto ci
faceva un gesto toccandosi la testa, come a dire:
‘Quest’uomo non è onesto, è da interdire’ poi sorrideva
e si capiva che era orgogliosa di lui.
Queste parole sono state pronunciate da Vincenzo, uno
dei tre figli di Donato Menichella, uno dei maggiori
artefici della ricostruzione economica e sociale
dell’Italia nella seconda parte degli anni ’30, dopo la
grande crisi iniziata nel ’29, quale direttore generale
dell’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale. Con
le stesse qualità di lucidità, competenza e senso dello
Stato contribuì in modo determinante alla ricostruzione
nei primi 15 anni del dopoguerra, nell’Italia di nuovo
fortunatamente unita, dopo i disastri della seconda
guerra mondiale. E qui lo fece nella veste di
Governatore della Banca d’Italia, carica che ricopri dal
1945 al 1960.
Donato Menichella era nato a Biccari in provincia di
Foggia nel 1896 e si può ben dire che sia uno dei grandi
uomini più dimenticati della nostra storia. Forse perché
il suo comportamento cristallino e dedito allo Stato in
modo disinteressato e corretto, mal si associa al
malcostume che iniziava a diffondersi, in sordina ma
costantemente, a partire proprio dagli anni ’60.
Fu, nelle sue funzioni, uno degli artefici della legge
Bancaria del 1936, che tra l’altro impediva alle banche
di possedere partecipazioni nelle imprese, divieto che
se ancora applicato negli anni 2000 avrebbe scongiurato
i rischi, allora in parte solo psicologici, che
colpirono anche l’Italia nel 2008, dopo il fallimento
della banca statunitense Lehman Brothers. In effetti,
quella crisi aveva già pochi aspetti di una crisi
finanziaria, ma era per me un chiaro segno della dura
realtà esplosa poi nel 2011 e cioè di una crisi
chiaramente economica, purtroppo strutturale, dovuta a
sovraproduzione mondiale, crisi che vede il mondo
occidentale in posizione di efficienza marginale
stremata, nei confronti soprattutto del colosso cinese.
Non voglio qui sottacere la presenza e le conseguenze
della speculazione finanziaria, che tuttavia sempre si
inserisce e attacca realtà economiche deboli e che
quindi non è mai causa prima di situazioni critiche
aziendali o nazionali.
I miei 15 lettori potrebbero chiedersi cosa c’entri
Menichella con l’antifederalismo e con i valori del
Movimento Umanista. Ho il dovere di provare a chiarirli.
Intanto ricordo che i due grandi momenti di
ricostruzione economica, di cui ho fatto cenno, sono
avvenuti in assenza delle amministrazioni regionali, a
ulteriore dimostrazione che il sistema di Enti
territoriali, imperniato sulla triade Comune,
Provinicia, Stato era razionale e sufficiente e andava
semplicemente, come ogni cosa, fatto funzionare
correttamente.
Con la prassi e l’etica del risparmio, a cominciare
dalla citata autoriduzione dei propri emolumenti,
Menichella si pone in contrasto con il dilagare di
sprechi e malcostume, amplificato dalla presenza di
venti amministrazioni regionali. I recentissimi primi
positivi tentativi del neonato governo Letta
richiederanno immense e razionali implementazioni.
Per l’affermazione dei valori legati al nuovo umanesimo
è indispensabile passare attraverso il rafforzamento
anche economico e sociale delle istituzioni esistenti,
sulla base di promozione o mantenimento di valori etici.
Il principale esempio direi che è proprio il
mantenimento della forza di una realtà statale che non
preclude anzi favorisce la proposta di successivi
passaggi verso traguardi di maggiore e solidale
integrazione internazionale.
Paesi defedati o di fatto economicamente falliti non
hanno la forza, le risorse e la volontà per promuovere
processi di pacificazione, né il superamento delle
frontiere verso la Nazione Umana Universale. Un
Movimento come quello Umanista, che agisce
prevalentemente su base volontaristica, deve ad esempio
contare su un numero sufficiente di individui che
abbiano il tempo e le energie per promuovere i propri
ideali e ciò è possibile solo in un contesto economico e
sociale sufficientemente robusto.
Quando un numero cospicuo di persone si dovesse stremare
in situazioni economiche precarie, spesso affannato da
problemi finanziari e dovesse dedicare tante energie per
far fronte al soddisfacimento di esigenze primarie, più
difficilmente troverebbe il modo di dedicarsi ad
attività extralavorative di costruttiva proposta ideale.
Da un punto di vista ancora più generale direi che
qualunque progetto si deve sempre confrontare con
problemi di concreta realizzabilità.
Per concludere e ritornare all’avvio del mio mensile
intervento su Conexión, vorrei dire che a uomini come
Donato Menichella, ogni città d’Italia dovrebbe almeno
dedicare una via, e ciò accadrebbe se vivessimo in un
Paese dotato di memoria storica e di consapevolezza
diffusa, che mantenesse il senso del dovere di
gratitudine e di riconoscimento del merito. sui muri.
Violare le cose di
uso comune è reato. E allora perché
dobbiamo lasciarci violare le cose che
costituiscono il nostro pane quotidiano
come la sanità e altro?
Un noto cantautore italiano ha detto:
“...e allora capii / fui costretto a capire
/ che fare il dottore / è soltanto un mestiere / che
la scienza non puoi regalarla alla gente / se non
vuoi ammalarti dell’identico male / se non vuoi
che il sistema ti pigli per fame...”. (FDA)
Siamo tutti sulla stessa barca e tutti a rotazione
abbiamo il nostro turno a remare, altrimenti
affondiamo.
Mio padre era uno “specialista dell’autoriduzione”. Autoridusse il suo stipendio nell’anteguerra a meno della metà. Non ritirò, quando fu reintegrato all’IRI, due anni e mezzo di stipendio; al presidente Paratore rispose: ‘Dall’ottobre 1943 al febbraio 1946 non ho lavorato!’. Fissò il suo stipendio nel dopoguerra a meno
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