Società
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“Quello che abbiamo per vivere qui dipende da scelte di tempo”.
Ho preso spunto da un vecchia canzone di Enrico Ruggeri per parlare di come viviamo il nostro tempo qui sulla terra e le scelte che in questo tempo facciamo, mettendo l’accento su che cosa comporta una nostra scelta sia per noi stessi che per le persone che vivono intorno a noi. Questo per dare risalto all’importanza che una nostra scelta ha sul futuro di ognuno di noi e per sostenere che, molto spesso le scelte poco dolorose o quelle più facili spesso vengono prese condizionati da altri.
Torniamo al tempo come strumento del vivere e come lo viviamo nel corso della nostra esistenza. A volte il tempo sembra essere tiranno, quando non passa o passa molto lentamente perché siamo in attesa di qualcosa che ci renderà felici. Tutte le percezioni che abbiamo del tempo sono legate a come ci sentiamo in quel momento e come spesso accade quando siamo in forma non sentiamo il “peso” del tempo che passa. Ciò che facciamo del tempo che abbiamo durante la nostra vita determina la strada che percorriamo fin da bambini, quando le scelte che compiamo sono condizionate dalla nostra famiglia. Nel corso della vita mentre cresciamo si forma in noi la personalità e sulla base delle esperienze passate e sui progetti futuri diamo un direzione alla vita facendo scelte in un tempo ben preciso.
Ci interessiamo veramente della nostra vita? Siamo realmente responsabili nei confronti di noi stessi e delle persone intorno a noi oppure, molto spesso, deleghiamo ad altri le decisioni importanti? Quando influenziamo chi ci rappresenta sulle decisioni che influenzeranno la nostra vita? Sono poche le persone che si mettono in gioco, pensando alla propria vita con una visione ampia, considerando che ciò che per se stessi è importante può essere condiviso da molti.
Prendiamo l’istruzione, grazie alla quale, ci formiamo attraverso concetti che sono la nostra base per una vita futura. Il diritto allo studio ha un ruolo molto importante nella vita di ognuno di noi perché la conoscenza apre la mente e ci aiuta ad essere consapevoli sulle nostre possibilità e sulle nostre responsabilità future. Dedicare il nostro tempo alla conoscenza e allo sviluppo della nostra consapevolezza di esseri umani, in grado di dare una direzione evolutiva al presente, ci permetterà di vivere in un futuro dove i diritti non verranno calpestati, come avviene oggi. Questo nostro utilizzo del tempo sarà trasmesso alle generazioni future come una necessità primaria, perché solo in questo modo si potrà dare un continuità alla conquista e alla conservazione dei propri diritti grazie ai quali possiamo e potremmo vivere meglio.
Non crediamo a chi ha come valore il denaro che il nostro sacrificio è necessario per migliorare la società in cui viviamo, in quanto quest’ultimo manterrà lo stato di cose immutato a totale vantaggio di quelle persone che hanno preteso, con successo, che noi ci immolassimo. Prendiamo coscienza che possiamo costruire un mondo, partendo da oggi, senza corruzione e senza la violenza che la corruzione genera nell’animo umano. Una violenza spesso portata dalla disperazione di chi si trova isolato a compiere la propria battaglia per avere una vita degna. La violenza non ha scuse neanche per chi, a livello politico e in modo subdolo, la legittima giustificando gli atti che essa compie attraverso l’azione delle persone, come atti isolati a vantaggio esclusivo di li compie. Dedicare tempo alla nostra vita vuol anche dire contrastare questi atti isolati che in questo periodo stanno stravolgendo la società in cui viviamo e in cui costruiamo la nostra vita. Chiudere gli occhi, non prendere una posizione attiva, lascia libero il campo a quelle persone che sfruttando la passività della maggioranza si arricchiscono indebolendo i nostri diritti.
Quanto diventa importante, soprattutto oggi, dedicare parte del nostro tempo all’affermazione e alla conservazione dei nostri diritti e per farvi un esempio pratico accennerò ad una bambina che all’età di undici anni ha iniziato la sua lotta per il diritto allo studio. Bambina che fino ad oggi, all’età di 14 anni, ha continuato la sua campagna per il diritto allo studio in una zona del Pakistan dove è stata aggredita da chi non vuole che le giovani donne possano studiare. Posso immaginare che sia stato difficile per una ragazza di 14 anni fare la sua battaglia per il diritto allo studio in una zona del mondo dove le donne sono molto discriminate e dove la violenza si manifesta con l’uso delle armi come le è appena successo. Il coraggio di volersi occupare della sua vita le avrà dato la forza per continuare.
Chissà che il suo esempio possa essere utile anche a noi per pensare a quanto sia ancora lontana l’uguaglianza tra gli esseri umani e che bisogna lavorare senza sosta per ottenere che questo avvenga. Quando avremo ottenuto questo traguardo bisognare essere vigili perché non ci venga negato il suo conseguimento da chi, in maniera violenta, vuole farci fare un passo indietro. Quello che abbiamo per vivere qui dipende da scelte di tempo. |
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Un vecchio detto popolare dice così: “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”. Cosa vuol dire? Semplicemente che il diavolo, notoriamente mentitore senza vergogna, mente sapendo di mentire, lasciando al caso le eventuali conseguenze di tali menzogne.
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Ho cominciato questo articolo con un detto popolare italiano, che si può certamente “esportare” nel resto del mondo multi-confessionale, poiché nessuna religione o cultura al mondo predica di proferire menzogna in nessun caso. Almeno voglio sperarlo. Tecnicamente nemmeno la forma laica o laicista economico-politica della piccola elite di potere che determina l’attuale caos globale dovrebbe sponsorizzare l’utilizzo della menzogna per progredire solo e soltanto nei vani personali interessi monetari.
Eppure lo fa! Un esempio pratico è il noto “segreto di stato” che rende impossibile l’accertamento della verità in moltissimi avvenimenti cruenti della storia del mondo.
Questa asserzione falsa per la quale coloro che si innalzano come padri della patria si nascondono dietro il velo dell’omertà e della spudorata bugia, in nome di ipotetici “interessi di stato”.
In effetti costoro, che si vantano di tali prerogative divine (forse successori del re Sole?) per esercitare con diritto la loro missione dovrebbero essere non solo trasparenti verso l’opinione pubblica, ma anche ricercatori della verità ad ogni costo.
Due esempi pratici:
L’elite di potere dice: “per progredire bisogna radere al suolo tale foresta in Amazzonia, poiché dobbiamo fornire l’industria del legname, e liberare lo spazio per la speculazione edilizia. Anche per la coltivazione di mais OGM per i biocarburanti”.
Il popolo locale risponde: “Non toccate la nostra foresta, poiché è l’unica fonte della nostra vita. Noi siamo nati qui e non ci interessa il vostro interesse monetario. La foresta amazzonica è il polmone verde del mondo e voi lo state distruggendo! I bulli di periferia si comportano come voi. Le colture OGM inquinano e rovinano i terreni. Non sono naturali, quindi l’equilibrio della Natura che governa il mondo da millenni verrà rovinato. I biocarburanti tolgono il grano dalla catena alimentare umana, alza il costo del poco grano che rimane sul mercato alimentare umano, non risolve affatto il problema dell’inquinamento! Cosa dovremmo mangiare noi? Forse olio motore e paraflù? E’ gravissimo che si dia alle macchine una fonte di sostentamento dell’essere umano!! Pazzia vera, non progresso economico!”
L’elite di potere dice: “per far fronte alla crisi economica bisogna produrre più petrolio, quindi bisogna andare a trivellare anche nell’Artico”. Il popolo locale risponde: “Se andrete a trivellare nell’Artico, sottoporrete il mondo a rischi apocalittici, in quanto un disastro ecologico in quella zona del pianeta sarebbe catastrofico per l’umanità. Andare a trivellare in quei luoghi comporta anche l’assenza dei suoi millenari ghiacciai che attualmente sono ai minimi storici! Il polo Nord si stà sciogliendo per colpa dell’effetto serra, che voi non combattete, poiché avete questi vani e distruttivi progetti nel cuore. State facendo sciogliere consapevolmente i ghiacciai poiché volete trivellare nel santuario del mondo. Se foste sinceri ed onesti investireste soldi nell’energia solare e rinnovabile.”
Naturalmente questi esempi sono sotto gli occhi di tutti, anche di coloro che vivono colpevolmente a loro insaputa. Infatti per questa grossa fetta di popolo “scajolano” questi argomenti non sono affatto interessanti, venendo bollati come “estremismi locali” oppure come “i rompiballe di turno”.
Ebbene si: se un governante usa la menzogna, anche davanti a semplici e dirompenti argomentazioni incontrovertibili, NON dovrebbe avere diritto a governare la cosa pubblica. Mentre gli “scajolani” fanno caso solo al gossip senza arte ne parte.
Per tornare ad argomenti più vicini alla realtà italiana, mi viene in mente la vicenda della Regione Lazio. La cronaca recente ha già dato tutte le informazioni necessarie per far sapere all’opinione pubblica il livello di schifo raggiunto da tale amministrazione. Voglio per questo ricordare come si è svolta la candidatura e l’elezione dell’attuale già ex giunta Polverini Renata (ex segretario generale del sindacato UGL). Al momento della presentazione delle liste dei candidati presso il Tribunale di Roma, la lista PDL a cui veniva associata la candidatura della Polverini, tale lista non veniva registrata in tempo e quindi la legge ne prescriveva di fatto l’esclusione. Il governo nazionale produsse quindi un decreto legge denominato “decreto interpretativo” con il quale aggirare di fatto le norme e le regole esistenti, per poter obbligare il tribunale di Roma ad ammettere la lista per legge.
Ecco, direi sostanzialmente che tale metodo non ha prodotto i risultati sperati, poiché cominciando la legislatura regionale con un espediente, non poteva far altro che farla finire con uno scandalo. Del resto “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”.
A sarà düra |
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Gran parte dei mostri di quel fenomeno che è il gotico hanno in comune di essere dei non morti, qualcosa di marcescente e rimosso che però, sfuggito alla tomba dell’oblio, gratta il legno del coperchio della sua bara e scatena l’orrore quando si apre la via del ritorno. Tutti tranne uno. E mentre i suoi artigli strappano le nostre carni e le sue fauci ci dilaniano, l’ultimo pensiero che ci viene paradossalmente in mente, è che ciò che spaventa veramente ma anche, ironicamente, diverte e affascina del licantropo è che in qualche modo, innegabilmente, sembra ben più vivo di noi.
Il lupo, che cos’è un lupo? Non è forse il residuo del cane che resiste all’addomesticamento? Oppure è quel residuo di noi che resiste all’addomesticamento da parte del cane e della società? Gli etologi non si sono mai decisi in merito, ma certo il fascino del suo concorrente tra gli animali da compagnia, il gatto, è proprio quello di non concedersi mai totalmente, di mostrare una resistenza irriducibile al branco, alla vita sociale.
Ma noi non abbiamo mai veramente voluto essere gatti, bensì lupi, e quando guardiamo il bosco, ci prende la nostalgia di una vita altra, di una sconosciuta libertà, di lune piene e di ululati selvaggi e dionisiaci. Se il filosofo Thomas Hobbes, sosteneva acutamente nel suo pessimismo antropologico che ogni uomo è lupo per l’altro, la nostra intuizione è che nella profondità della foresta lontano dal dominio dello stato, ogni lupo possa diventare uomo per l’altro lupo. Anarchia lupesca?!
Ma perchè abbiamo demonizzato il lupo fino a farne un mostro? Non fu sempre così, anzi, finché l’uomo fu cacciatore, esso fu considerato animale sacro e totemico, il cui spirito era chiamato dallo sciamano al fine di fornire supporto “tecnico” ad un animale umano ben meno dotato. Nella tradizione nordica e barbarica i Berserker erano guerrieri che si trasformavano in lupi o orsi diventando combattenti temutissimi. Ma poi con la nasciata dell’allevamento, il nostro giudizio sul nostro antico compagno spirituale cambiò, o lo mutammo in cane oppure divenne il nostro più acerrimo nemico. Ma quel legame antico è ancora parte di noi, sepolto sotto pelli umane sempre più glabre e levigate, uno strato oscuro e selvaggio che abita ancora la nostra interiorità come una pelliccia che si è rovesciata all’interno, negata e rimossa, ma che proprio perché repressa è destinata a riemergere, ricrescere e riconquistare la sua libertà, naturalmente a nostro scapito.
La leggenda dell’uomo lupo affonda le sue radici nella cultura europea e non solo: sono numerosissime le cronache di condanne al rogo di persone accusate di licantropia, associate sempre di più con il consolidarsi del Cristianesimo ad influenze stregonesche e sataniche. Si nasconde dietro non solo una repressione sociale dell’animalità, ma il timore del ricorso al cannibalismo come risorsa contro le frequenti carestie alimentari che contrassegnarono tutta l’era medievale fino alla modernità. La licantropia veniva quindi ritenuta una maledizione voluta o meno che colpiva un soggetto, ma che non poteva essere veicolata ad altri tramite il morso contagioso analogo alla rabbia, come la tradizione cinematografica tenderà a codificare. Non è nemmeno così vero che la tradizione associ il fenomeno della trasformazione in lupo mannaro rigidamente al plenilunio, ma semmai questa dimensione ciclica deve essere ritenuta una forma di razionalizzazione che si salda con la tradizione carnevalesca. Proprio il carnevale è lo sfondo della licantropia, in quanto questa festa di antichissima tradizione ha lo scopo di normalizzatore sociale, cioè una temporanea sovversione totale delle regole civili al fine di perpetuarle attraverso lo sfogo ciclico di quelle pulsioni che, se totalmente represse, porterebbero al dissolvimento della società e delle sue gerachie. Allo stesso modo il licantropo, una volta soddisfatta la sua natura selvaggia e cannibalica durante il plenilunio, può tornare umano fino la prossimo ciclo lunare, perpetuando una maledizione individuale e collettiva insieme.
Con la sua codifica romanzesca e cinematografica la licantropia assume le forme a noi note, e l’argento diventa l’arma più efficace contro il licantropo per i tradizionale effetti ritenuti battericidi, ma quello che si consuma è la dimensione demonica del lupo mannaro. Complice l’industrializzazione dell’allevamento e la parziale estinzione del lupo e del suo habitat, il cinema compie nel corso del tempo una nascosta riabilitazione culturale di questa figura. Consegnato alla tradizione del gotico, il lupo che abita l’uomo diventa la perfetta espressione del disagio della civiltà di matrice freudiana che allontana sempre più l’umanità dalla sua natura felice di animale, ed in cui la mutazione simbolica finisce per diventare un atto di rivolta nevrotica e violenta da reprimere, ma anche tacitamente comprensibile. Il dilemma per il sistema socio-economico allora diventa come imbrigliare tale forza libidica e carnivora per metterla al servizio della produttività. Non è un caso che Karl Marx individui non solo nel vampiro, ma anche nel licantropo l’incarnazione simbolica dell’attività predatoria del capitalista “vorace di pluslavoro”. La natura lupigna dell’uomo, allora, non solo si rivela positiva, ma addirittura diventa la caratteristisca vincente del top manager delle grandi corporation. Un manifesto molto acuto è il film “Wolf la belva è fuori” con protagonista Jack Nicholson che interpreta un direttore di una casa editrice americana che, ormai logoro e poco aggressivo, viene messo da parte da un collega più giovane ed intraprendente; l’esito sembra scontato finché il morso di un provvidenziale lupo mannaro gli causa una lenta metamorfosi che lo trasforma nella perfetta incarnazione ideale del manager contemporaneo rovesciandone la sorte. Ritrovando il lupo dentro di sè e trasformandosi sempre più in esso come da tradizione, la componente sciamanica viene riattualizzata nelle nuove forme di lotta sociale, di gerarchia amministrativa di branco, di ferocia competitiva e di un nuovo cannibalismo dello sfruttamento in nome del denaro. Il capitalismo riesce nell’impresa titanica fallita dalla vecchio ordine socio-religioso di domare ed addomesticare ciò che ancora di selvaggio giace nel fondo dell’uomo, trasformando il vecchio licantropo, nel perfetto dirigente “metrosexual”, curatissimo, salutista e depilato perché è nell’attività lavorativa che può metaforicamente mostrare il suo vero carattere mostruoso ed ibrido di uomo-lupo.
Come non sospettare allora di ideologie vegetariane fino al fanatismo, di un rifiuto etico ma anche modaiolo della carne e della natura onnivora dell’uomo, che è anche lupo? Non è forse questo lupo che si reprime fino al parossismo perché o è sublimato nella perfomance agonistico dirigenziali oppure esplode in una violenza incontrollata ed insensata? La lezione è che se si può e probabilmente si deve rinunciare alla carne, in riconosciemento del lupo che ci abita sarebbe saggio che anche il vegano una volta l’anno, di plenilunio, consumasse il suo fiero pasto di carne cruda. |
“Divieti, recinti, limiti. Tante cose qui in Albania non ci sono. Cosa si respira qui prima di tutto è la libertà”. Si potrebbe riassumere in questa frase il libro di Rosita Ferrato “Albania. Sguardi di una reporter”. Edito da Lexis di Torino, il volume, 170 pagine, 18 euro il prezzo di copertina, è un vero e proprio inno a una nazione, ancora molto sconosciuta all’Europa occidentale. Ferrato la descrive con un pizzico d’ironia, ma anche tanto amore per una terra ancora poco addomesticata, quindi non costretta dalle regole. Ad esempio, i balconi senza ringhiera sono più di quelli terminati, in tutte le città. In auto non ci sono regole, se non quella di non farsi mai sorpassare. Dopo la caduta del regime di Enver Hoxha, nei centri urbani sono stati cambiati i nomi alle vie, e così non sono più un riferimento. Oggi, nessuno sa dov’è via Durazzo, dove c’è il tal hotel, ma tutti sanno che il tal hotel si trova vicino all’ufficio postale o al tal chiosco.
Un po’ guida turistica, un po’ romanzo delle curiosità, il libro di Ferrato descrive l’Albania contemporanea attraverso piccoli racconti di un suo viaggio, un vero trekking sociale tra i palazzi colorati di Tirana, lungo le strade sconnesse di montagna, sulle spiagge romantiche di Saranda.
Rosita Ferrato è un po’ una Sherazade che si sente costretta a raccontare ogni centimetro di questa terra affascinante, giocata tra Oriente e Occidente, affacciata sul mar Adriatico, ma anche molto montagna.
Gli albanesi?
Beh.. Gente creativa e fantasiosissima… a partire dalla sua guida, curiosamente tifoso del Toro. Dalle sue pagine, corredate anche da fotografie, vengono fuori antichi mestieri, come il lustrascarpe, il venditore di tè autarchico, che si beveva durante il comunismo, il venditore di scarpe usate, o i pesatori di essere umani, ovvero uomini con piccole bilance, quelle che da noi vengono tenute in bagno…
La sua Tirana ricorda un po’ la Istanbul di Sultanahmet, un gran bazar di confusione.
Ferrato cita gli scrittori Ismail Kadarè e Anilda Ibrahimi, ricorda “Lamerica”, toccante film di Amerio sulla massiccia emigrazione degli anni Novanta. Parla della musica contemporanea che ascoltano i giovani, del cibo e della moda… Le donne albanesi portano tutte il tacco alto e camminano con agilità anche sui pendii più martoriati…. Poi ci sono anche le “Vergini giurate”… donne venute dalle tradizioni del passato… donne vestite da uomini per sfuggire il matrimonio.
Qua e là c’è anche qualche pizzico di storia politica, sempre condita da aneddoti e curiosità. Ad esempio, le strade sono ancora poche perché il dittatore non le voleva per frenare eventuali invasioni. L’Albania di Ferrato più che nazione delle aquile è quella dei pipistrelli… Ce ne sono tanti perché possono nidificare e trovare riparo nelle migliaia di bunker fatti costruire sempre da Hoxha per combattere il nemico esterno. Oggi quei bunker, simbolo del potere comunista, oltre che ai pipistrelli, servono anche alle persone… Già, come cabine per cambiarsi dopo una giornata in spiaggia, o ancora come alcove per gli amori clandestini.
Sherazade termina il suo racconto invitata da una zingara, al bazar di Kruja, la città dell’eroe nazionale Skanderbeg. “Torna a casa da tuo marito”. “Un monito a non viaggiare da sola o una minaccia?”, si chiede l’autrice. |
Scritto da Convergenza delle Culture
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Fai la differenza, attiva la nonviolenza!
Dopo aver celebrato il 2 ottobre la Giornata Mondiale della Nonviolenza con una fiaccolata per le strade di Torino, proponiamo un ciclo di cineforum su tematiche sociali per promuovere e diffondere concretamente una cultura della nonviolenza attiva. Si tratta di film-documentari con cui vogliamo far conoscere alcune realtà poco note e stimolare riflessioni e discussioni costruttive. Nella ferma convinzione che la nonviolenza attiva è l’unica scelta etica e strategica vincente e innovativa, l’unica strada per riconciliarci con il passato che ci insegue e rivolgerci al domani con rinnovata speranza.
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Promotori e aderenti:
Convergenza delle Culture, Orizzonti in libertà, Conexion, Help to Change, Progetto Umanista / Centro Esperanto di Torino, No.à. - Nonviolenza attiva, Nuova Realtà, Casa Umanista, Immigrati autoorganizzati di Torino, Comunità per lo Sviluppo Umano, Handicap & Sviluppo, Emergency, Centro Studi Sereno Regis, Progetto INTI, Piemonte Movie
Lunedì 15 ottobre
La vita che non CIE
Tre corti sui Centri di Identificazione
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